Laboratorio Universitario di Pedagogia dell'Antimafia "Giuseppe Di Vittorio"
di Chantal Castiglione
Le luci si spengono. Passano le pubblicità prima dell’inizio della proiezione. Cinema quasi vuoto. Un’adolescente quattordicenne e il suo papà. L’attesa. Silenzio. Le prime immagini sullo schermo.
Il film scorre via quasi tutto d’un fiato. In apnea. Amore, lotte, rabbia, lacrime e voglia di urlare al cielo che la mafia è una montagna di merda.
100 passi. Peppino Impastato. Scelta per la vita.
La ragazzina è stata rapita da quel vissuto, dalla ribellione e dalle parole urlate per far si che venissero ascoltate anche da chi si tappava le orecchie. Quello che la colpiva di più era il modo di comunicare usato da Peppino, sbeffeggiava i mafiosi dalle onde libere di Radio Aut, portava in giro mostre itineranti sulla devastazione del territorio, al fianco dei contadini espropriati, figlio del ’68 e di quel Movimento del ’77 dal quale ha rubato la creatività e l’immaginazione. È stato proprio allora che la ragazza ha deciso che nella sua vita non ci sarebbe stato spazio per il compromesso, che avrebbe dovuto fare la giornalista e scrivere, che avrebbe dovuto inondare di parole il silenzio, che avrebbe dovuto ricercare la verità e accendere la luce su tante vicende oscure, che avrebbe difeso con tutta se stessa ciò in cui credeva, a testa alta nel nome e con Peppino.
In fondo lei si era sentita diversa dagli altri da sempre. E oggi ne è orgogliosa. Non ha tradito Peppino, non ha tradito i suoi ideali. La ritrovate sempre lì col pugno chiuso e la testa alta.
Quella giovane donna dopo molti anni è andata a Cinisi a ringraziare Peppino, a compiere i suoi 100 passi. Lei deve tanto a Peppino. È colpa sua il suo modo di essere. È colpa sua se non si è mai arresa davanti a nulla. È colpa sua se ancora fa sogni grandi. Quella ragazza ormai donna gli deve la vita.
9 maggio 1978. Il corpo dilaniato di un giovane viene ritrovato sui binari tra Cinisi e Terrasini. Dicono sia uno sprovveduto, che si sia fatto saltare in aria accidentalmente mentre confezionava un ordigno da posizionare sulla tratta ferroviaria, talmente sprovveduto che prima ha sbattuto la testa su alcune grosse pietre e poi in un moto di alterazione totale si sia avvolto con i candelotti, si sia sdraiato sui binari, acceso la miccia e booom il gran botto. Quella notte son piovuti pezzetti di malacarne sulla terra dei boss. Malacarne pronta a germogliare lotta e speranza. Ma quante morti accidentali nelle stagioni buie della Repubblica? Sicuramente un terrorista terrorizzato. Un meschino mischiato con niente. Tirata su la messinscena per depistare e occultare quello che è stato: la mafia ha ucciso, in maniera spettacolare, chi più gli dava fastidio. I boss non si prendono in giro, casomai si ossequiano. Peppino invece, a ragione, aveva osato andare contro gli insegnamenti dei padri. Li aveva fatti diventare personaggetti ridicoli della città di Mafiopoli.
Nelle stesse ore del ritrovamento di quello che rimaneva di quel “giovane sprovveduto”, a Roma, in via Caetani, veniva ritrovato in una Renault il corpo senza vita di Aldo Moro.
Ma perché è importante non dimenticare Peppino Impastato?
Giuseppe Impastato è stato ammazzato da quella commistione tra mafia e potere democristiano che per anni hanno comandato la Sicilia e l’Italia intera e di cui ci portiamo ancora dietro le influenze e i modus operandi. Viviamo allora come ora in una democrazia bloccata, diritti negati, la mafia allunga la sua longa manus ovunque e si camuffa tra i colletti bianchi.
A distanza di 40 anni è bene portare alla memoria sia di chi per sbadataggine, incuranza e adeguamento al sistema ha dimenticato e sia di chi non ha mai letto, visto, ascoltato la sua storia.
Scriveva Peppino in una breve nota autobiografica contenuta nel libro di Salvo Vitale “Peppino Impastato una vita contro la mafia”: «Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire a una condizione familiare divenuta ormai insostenibile […]. Erano i tempi della Rivoluzione culturale e del Che».
La politica come via di emancipazione e di affrancamento da una realtà mafiosa che non gli si addiceva e che ripudiava, trasformando la sua rabbia in motore di lotta, in avanguardia rivoluzionaria.
Egli può essere considerato un ponte tra passato e futuro, ovvero tra il vecchio movimento antimafia e una nuova fase di lotta a cui molti continuano ad ispirarsi. Fautore di un’antimafia non istituzionale e non istituzionalizzabile. Legato alle lotte contadine e a quelle che ne susseguirono. Per una terra libera dal compromesso mafioso-democristiano dei potenti.
Peppino ha vinto se a dopo 40 anni ancora si parla di lui, esempio disobbediente e ribelle. La morte e la menzogna non l’hanno avuta vinta anche grazie all’impegno di Mamma Felicia, di Giovanni e dei tanti suoi amici che hanno lottato incessantemente per arrivare alla verità, quella che tutti sapevano ma che il potere di allora (non tanto distante da quello odierno) ha cercato in tutti modi di cancellare.
Grazie Peppino, grazie soprattutto a nome di quella ragazza di 14 anni a cui hai regalato una stampella di speranza su cui poggiarsi nella lotta.
Grazie perché ci hai insegnato che la mafia può essere sconfitta tramite la cultura. I mafiosi hanno più paura dell’ironia che di un’arma puntata.
Allora continuiamo a deriderla, a prenderla in giro. A respirare il profumo dei fiori di campo, simbolo di riscatto e lotta contro ogni mafia. Non arresteranno mai la primavera.
Nel nome e con le idee di Peppino noi andiamo avanti!