Laboratorio Universitario di Pedagogia dell'Antimafia "Giuseppe Di Vittorio"
di Chantal Castiglione
La storia italiana è composta, da sempre, da una serie di gialli. Storie poco chiare che s’intrecciano, legate a doppio filo le une alle altre. Sono storie di uomini, donne, forze dell’ordine, padroni, oppressi, oppressori, rivoltosi, reazionari, governanti, servizi; morti sospette fatte passare come incidenti, assassinii eclatanti, anarchici fatti volare giù da finestre della questura troppo aperte nel caldo gelido di dicembre, studenti freddati vigliaccamente alle spalle, esecuzioni sommarie; ma anche di giornalisti e scrittori coraggiosi e di giovani sognatori.
A differenza dei romanzi, però, in cui alla fine il colpevole si trova sempre e viene assicurato alla giustizia, gli autori delle Stragi di Stato e di determinati omicidi “politici”, non sono mai stati trovati o, meglio, sappiamo chi sono i mandanti e gli esecutori, ma essendo parte di ingranaggi statali ben oliati son sempre risultati innocenti. Il potere in tutte le sue forme legali ed extralegali non si processa, non è mai colpevole anche se lo si trova con le mani intrise di sangue.
L’Italia resta un romanzo giallo senza soluzioni ma dagli innumerevoli colpi di scena.
Ci sono vissuti che continuano a restare ai margini non solo della storia ufficiale. Vissuti che nessuno, non si sa per quale ragione, vuole raccontare, anzi li preferirebbe cancellare. Archiviati tanto dalla giustizia quanto dalla memoria collettiva di molti. Storie che posseggono tutti i crismi di un giallo di successo, in grado di lasciare il lettore non solo col fiato sospeso fino all’ultima sillaba dell’ultima pagina, ma anche con l’amaro in bocca non riuscendo a scoprire l’assassino.
La storia che vado a raccontare si svolge a Milano. Gli anni sono i Settanta.
Per capire cos’è Milano in quel periodo bisogna saper leggere tra le righe, nel sommerso di mondi paralleli, scavando nella zona grigia, non tralasciando i piccoli particolari. Milano è un mosaico a tinte fosche; ma anche e soprattutto di effervescenza collettiva: le manifestazioni a favore di Cuba degli primi anni Sessanta, i cortei contro la guerra in Vietnam, il Movimento studentesco.
La vicenda di Roberto Franceschi si ascrive a quell’universo di Storie Altre che vale la pena conoscere per capire un po’ meglio quello che è successo nel nostro Paese a partire dal Secondo Dopoguerra in termini di repressione.
Ma chi è Roberto Franceschi? Ve lo presento con le parole di sua madre Lydia che ho avuto il piacere di conoscere.
« La sera di quel 23 gennaio del 1973, quarantacinque anni fa ormai, Roberto decise all’ultimo di prendere parte all’assemblea studentesca alla Bocconi. Non ero preoccupata poiché non sembrava esserci una tensione maggiore rispetto alla solita. Nessuno sapeva che il rettore Dell’Amore aveva imposto un divieto che non rimase solo teorico, cioè a quell’assemblea dovevano partecipare solo studenti della Bocconi, quindi ne erano esclusi altri studenti, lavoratori, ecc. A sorvegliare il rispetto di quell’ordine c’era un folto schieramento del III reparto celere, al comando del tenente Addante. Roberto era stato raggiunto da una pallottola sparata da dietro che lo colpì alla nuca e cadde con il viso in giù sul marciapiede, aveva il volto reso irriconoscibile. I suoi occhi in ospedale cercavano i nostri. Non avrei mai riudito la sua voce. I colpi sparati quella sera furono tutti esplosi ad altezza uomo, con intento omicida, meschinamente quando gli studenti erano di spalle. Oltre a Roberto venne ferito anche un operaio, Roberto Piacentini. Mio figlio quella sera indossava un maglione bianco a collo alto; il proiettile lo raggiunse proprio dove terminava il maglione. Non riprese mai conoscenza. Nel giro di pochi attimi, senza una ragione che potesse giustificare l’uso delle armi nei confronti dei giovani, che quella sera volevano riunirsi per discutere pacificamente sui problemi che li coinvolgevano in prima persona, al posto di un figlio ci fu restituito un ragazzo agonizzante che doveva testimoniare, nelle intenzioni di chi detiene la forza delle armi, che il potere è più forte delle idee. Roberto era e rimane un ragazzo libero, uno studente trenta e lode, come lo hanno chiamato, che andava incontro alla vita con l’entusiasmo, la fiducia e la baldanza dei suoi vent’anni, impegnato politicamente e culturalmente per quei valori di libertà e di uguaglianza che gli sembravano ovvi in un paese democratico. Morì dopo una settimana, il 30 gennaio. L’iter giudiziario fu tortuoso, si avvalorarono diverse tesi del tutto infondate, molti furono gli insabbiamenti con la volontà di non fare piena luce su quella sera. Era un ragazzo fermo nei suoi propositi, intelligente ed esigente, cordiale allegro e sereno. Non conosceva il deserto dell’indifferenza ma non aveva neppure lo spirito fanatico che qualcuno gli voleva attribuire. La sua mobilitazione era un esempio contro ogni qualunquismo ideale e morale. Roberto odiava la violenza e non immaginava che esistesse una violenza così fine a se stessa. Portò nel Movimento studentesco il suo stile: coraggio senza violenza, coerenza fino al rischio della vita, slancio generoso. Voleva cambiare il mondo, era proiettato in un universo di speranza, di crescita civile e umana, in cui a tutti fossero garantiti dignità e rispetto. Aveva con la cultura un rapporto intenso, sostenuto dalla convinzione che fosse indispensabile a sé e alla causa di democrazia e giustizia che aveva scelto. È stato uno dei leader del Movimento studentesco all’università Bocconi; cercava di arginare quella mentalità che vedeva l’attività politica prioritaria rispetto all’impegno culturale e la ricerca della via facile nello studio, convinto com’era che lo stare dalla parte degli sfruttati significa mettere a disposizione il meglio della ricerca scientifica. I suoi ideali erano rivolti all’aiuto delle persone più bisognose. Cercava di convincere tutti a partecipare alle manifestazioni per l’ideale e perché le riteneva belle esperienze di vita comune. Era molto attivo, alle parole faceva seguire i fatti, era spesso presente durante gli incidenti che avvennero con la polizia ma non usò mai un’arma. A riguardo di questo Roberto disse ad un’amica: “Noi andiamo alle manifestazioni disarmati, come incontro a una missione. Non abbiamo paura, anche se si va allo sbaraglio. A volte ho visto compagni e amici feriti negli scontri con la polizia. Eppure, sento di essere presente anch’io”. Roberto è uno dei tanti morti della non memoria, della memoria mancata, ripudiata. Mai che vengano ricordate le vittime di quelle che si chiamano le forze dell’ordine. Prima di usare la forza, ricordatevi di Roberto Franceschi, pensate al diritto che hanno i giovani di manifestare, di ricercare una loro dimensione, una loro coscienza che può non essere solo la continuità con quella dei padri. Rimane la storia di un ragazzo felice, che andava incontro alla vita con l’entusiasmo, la fiducia e la spensieratezza dei suoi vent’anni, la cui vita fu tragicamente spezzata da uno sparo esploso dalla polizia del suo paese. Penso alla nostra storia, a come sia piena di cadaveri che chiedono solo di essere ricordati per ciò che hanno rappresentato, per ciò che ancora oggi devono rappresentare. Per un futuro come quello di Roberto che non è, che non è potuto essere, che gli è stato negato. La frase che meglio testimonia ciò che mi ha lasciato mio figlio è: “Mamma, se mi dovesse succedere qualcosa, tu dovrai continuare nella mia lotta”. Bisogna seminare nella memoria. I ragazzi come mio figlio non erano degli scalmanati, dei capipopolo o dei sudditi, erano giovani consapevoli e preparati che volevano un mondo più giusto. Bisogna parlare di loro perché anch’essi fanno parte di questa nazione. Non sono, come vorrebbe il potere del nostro paese, i fantasmi della memoria collettiva».
L'unica cosa che possiamo fare è continuare a raccontare questi vissuti, annodando i fili sconnessi della memoria, contro le mistificazioni, gli oscurantismi e gli insabbiamenti. Diamo dignità e luce a quelli che Lydia chiama "i fantasmi della non memoria".
I familiari di Roberto portano avanti la sua lotta per l’affermazione dei diritti umani e dei valori costituzionali tramite la fondazione a lui dedicata.
È proprio vero, come Roberto scriveva, che “La paura della verità è già fascismo”. Un paese che non vuol fare i conti con la sua storia più recente è, nei metodi, fascista e vigliacco. Facendo si che molti vissuti, molte verità venissero appositamente risucchiate dal buco nero della memoria.
Restano, poi, la barbarie dell'uomo sull'uomo, la prevaricazione di chi, sentendosi in una posizione di potenza, decide a proprio piacimento della vita degli altri: sparando, malmenando fino alla morte chi manifesta per i propri diritti, chi si trova semplicemente per strada ma viene scelto come bersaglio per sfogare rabbia e frustrazione malate e vigliacche.
Non dimenticare Roberto Franceschi (e i tanti giovani di cui presto racconteremo le storie) è un dovere civile e morale. Significa lottare, militare attivamente, professare il credo dell’antifascismo, divenire Partigiani della memoria.