Laboratorio Universitario di Pedagogia dell'Antimafia "Giuseppe Di Vittorio"
di Chantal Castiglione
Tiberio Bentivoglio sostiene che denunciare è democrazia.
Da una prospettiva pedagogica, la denuncia è un vero e proprio atto rivoluzionario, di ribellione profonda contro chi si sente, a torto, padrone della nostra e della vita altrui. È altresì un atto di Resistenza civile al potere vessatorio delle mafie e di qualsiasi tipo di potere reazionario.
Le parole come sempre giocano un ruolo di assoluta rilevanza. Dire No, gridarlo a squarciagola, in maniera decisa è il più bell’atto d’amore rivoluzionario. Il No profuma di Maggio, di lotta, di speranze. Il No genera anche nuovi compagni di viaggio, uno tra tutti la paura per noi stessi, per i nostri familiari; ma anche paura di rimanere soli, ai margini, bersagli da colpire.
Fin troppe volte è più semplice dire di si, sottomettersi, accettare incondizionatamente che la vita ci passi sopra, ci sovrasti e ci abbandoni alla mera sopravvivenza nel marasma dell’oggi, sempre chini, esseri striscianti alla corte dei potenti. Il si implica, quindi, il non rischiare, il mettersi al sicuro dagli imprevisti emergenti da scelte diverse.
Denunciare segna un’esperienza di forte discontinuità; crea un prima e un dopo, una cesura epocale. Non coinvolge la società nel suo complesso. Ne attrae solo piccolissimi nuclei a volte formati da un singolo individuo. Chi decide di denunciare quasi rinasce, vive momenti di liberazione autentica, ritorna a respirare libertà e dignità. Questi due elementi vengono però a mancare quando per paura, convenienza, connivenza o altro si lascia potere decisionale sulla propria quotidianità a chi, sentendosi un dio in terra, ci rende schiavi.
La cultura è l’unico antidoto che è in nostro possesso. L’unico che serve a non servire. A non renderci le pedine di nessuno. Ad evadere dalle prigioni in cui troppe volte veniamo nostro malgrado intrappolati. In cui ci sentiamo soffocare. Quasi intrappolati. Ci spegniamo pian piano ed tentare la fuga diventerà sempre più difficile in quanto l’assuefazione allo stato di cose sarà totale. La cultura può spezzare questo meccanismo di sudditanza.
La matita, la penna, i libri sono armi di distruzione potentissimi poiché in grado di decostruire le sovrastrutture fisiche e mentali dalle quali siamo circondati permettendoci di costruire e sviluppare coscienza critica, di scovare sempre più nuovi punti di osservazione del sociale in modo da creare una visione alternativa della realtà.
Le mafie non sono altro che una mentalità, una “cultura”. È la mentalità del così è sempre stato e così deve continuare ad essere. Chiunque è un potenziale mafioso anche quando ci si gira dall’altra parte e ci si ostina a non voler vedere oltre il proprio naso, quando si è indifferenti, quando è più semplice trovare dei piccoli sotterfugi e accrescere il proprio egocentrismo, quando si va avanti a colpi di raccomandazioni e si è amici degli amici. Non c’è certo bisogno di saper usare una pistola.
Scriveva un giornalista siciliano Pippo Fava ucciso da Cosa nostra il 5 gennaio del 1984 a Catania: “A che serve vivere, se non c’è coraggio di lottare?”
Ora tocca solo a noi scegliere di lottare, di metterci la faccia e l’impegno quotidiano.
C’è bisogno di coraggio. C’è bisogno di lotta.