“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani,

per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni,

che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né a Dio,

                                             che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.”

                                                                          Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici, Barbiana, 18 ottobre 1965

Una pedagogia dell’antimafia come ri-territorializzazione educativa: per una società della prossimità umana

 

La parola antimafia quale strumento per una nuova pedagogia della liberazione

La scelta di proporre questa breve argomentazione nasce dall’esigenza di divulgare a un pubblico più ampio di quello accademico le ragioni scientifiche di un percorso laboratoriale svolto all’Università della Calabria negli ultimi dieci anni e caratterizzato dall’uso di due parole, pedagogia e antimafia, tenute insieme faticosamente nel quadro di un’analisi più ampia indirizzata allo studio del tema della ri-territorializzazione educativa secondo gli approcci della pedagogia critico-radicale di Paulo Freire e don Lorenzo Milani. La definizione pedagogia dell’antimafia viene utilizzata la prima volta nell’anno accademico 2015-16 per costituire formalmente un laboratorio didattico all’interno dell’offerta formativa del corso di studio in Scienze dell’Educazione afferente al dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione (oggi Culture, Educazione e Società). In realtà, l’iniziativa seminariale di fondazione del progetto di resistenza alle mafie è datata 23 maggio 2011, nell’ambito delle attività didattiche dell’insegnamento di Storia della pedagogia attivo allora presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Unical. Successivamente pedagogia dell’antimafia diventa un insegnamento laboratoriale a partire dall’anno accademico 2018-19. Con quale obiettivo? Parafrasando Freire di Pedagogia degli oppressi, si potrebbe dire: provare a costruire un’intima solidarietà tra queste due parole, pedagogia e antimafia. Una solidarietà prassica che si traduca nella ricerca di una grammatica della liberazione in grado di assumere come compito politico la ricostruzione delle relazioni socioeducative all’interno di quei territori caratterizzati da una permanente distorsione dei diritti di cittadinanza, e sfregiati da una narrazione della subalternità che rende estremamente fragile e precaria la tenuta delle istituzioni democratiche.   

In dieci anni di attività didattica sono stati organizzati 118 seminari in presenza, 14 online (a causa della pandemia da covid-19) e 26 laboratori all’aperto (da Scampia a Palermo, dalla Piana di Gioia Tauro alla Locride, passando per le periferie di Cosenza), che hanno coinvolto più di 300 relatori. Figure di alto profilo istituzionale della Direzione Nazionale Antimafia e della Commissione Parlamentare Antimafia, delle Procure distrettuali antimafia (Catanzaro, Reggio Calabria, Palermo e Napoli) e delle forze dell’ordine, il mondo dell’associazionismo laico e cattolico, importanti prelati e sacerdoti impegnati nella promozione della ‘memoria antimafia’, la realtà dei movimenti, gli imprenditori che hanno denunciato il racket delle estorsioni, il giornalismo militante, hanno animato in questi anni accademici il cantiere pedagogico nato sulle colline di Arcavacata. Più di 4mila gli studenti impegnati nella sperimentazione didattica tra i banchi delle aule (anche digitali) di Scienze dell’Educazione, mentre mille sono stati gli universitari che hanno partecipato ai laboratori di cittadinanza attiva svolti nei territori del Mezzogiorno.

 

Le mafie: linguaggi di potere delle classi dirigenti

La trasformazione delle mafie da soggetto criminale a incubatore permanente e plurale di relazioni politiche e socioeconomiche affermatesi ormai su scala globale rende necessaria la costruzione di una pedagogia dell’antimafia che vada oltre l’asfittico segmento dell’educazione securitaria e di mera conformazione alla legge. Le mafie si sono emancipate dal tradizionale perimetro criminale della violenza urbana organizzata per diventare pienamente una modalità strutturale e permanente del potere (e della sua complessa fenomenologia politico-sociale) in diverse realtà del pianeta (il narco-Stato e lo Stato di mafia), a partire dall’Italia che è da due secoli il laboratorio criminale dell’Occidente.

C’è un testo del 2015, per restare alla storia delle mafie italiane, estremante importante al riguardo che recupera le importanti analisi degli anni Ottanta del Novecento condotte sul tema (e su parole chiave come: territorio, consenso, Stato parallelo, poteri obliqui) da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in una cornice interpretativa assolutamente originale e coraggiosa sul piano ermeneutico: Storia dell’Italia mafiosa di Isaia Sales. Lungo questa linea interpretativa ci sono almeno altri quattro testi recenti che meritano menzione, in questa sede di discussione, per le tesi espresse sui legami tra politica e mafie, multinazionali e mafie: Storia segreta della ’ndrangheta e La rete degli invisibili, rispettivamente del 2018 e 2019, curati da Antonio Nicaso e Nicola Gratteri; e Come si comanda il mondo e Il potere che sta conquistando il mondo. Le multinazionali dei Paesi senza democrazia, rispettivamente del 2017 e 2020, curati da Giorgio Galli e Mario Caligiuri.

Isaia Sales definisce le mafie quali linguaggi di potere propri delle classi dirigenti italiane. La forza delle mafie è nelle sue relazioni con il potere pubblico: in questo risiede la longevità bisecolare delle mafie italiane e la loro specificità rispetto alle tradizionali forme di crimine organizzato. La storia delle mafie è pertanto storia sociale delle classi dirigenti: dei loro valori, delle loro prassi comportamentali, della loro modalità di gestione della cosa pubblica. Rispetto al mero fenomeno delinquenziale, le mafie, pur mantenendo la matrice di potere criminale extralegale, si definiscono all’interno delle procedure relazionali delle élite governative (sia locali sia nazionali) come una modalità e un carattere strutturale del potere in Italia.

Quali sono le conseguenze di questa tesi? Se ne possono rintracciare almeno tre. La prima, sul piano storiografico: non è pensabile studiare metodologicamente la storia d’Italia senza intrecciarla con quella delle mafie che costituiscono il linguaggio di potere delle classi dirigenti. Significa indagare sul piano storico-sociale quelle relazioni di prossimità, purtroppo permanenti, tra mafie e classi governative che hanno scritto pagine di storia ancora non conosciute perché (volutamente) inesplorate. La seconda, sul piano politico: ogni Stato è tale quando basa la sua articolazione di potere sul monopolio della forza e della legalità. Questo determina sul piano dell’organizzazione dei territori l’esercizio pieno della sovranità dello Stato su di essi: in poche battute, la sicurezza e le sue dinamiche sociali. In Italia, Stato e mafie convivono nell’organizzazione dei servizi nei territori, a partire dall’ordine pubblico. Terza questione, quella pedagogica: uno Stato che costruisce la propria identità nella relazione (permanente) di potere tra momento legale ed extralegale, finisce con il legittimare nelle dinamiche socioeducative una società mafiogena, di cui si può assumere, in questa sede, un primo aspetto interpretativo suggerito da Umberto Santino, sociologo e Direttore del Centro Impastato di Palermo: “Violenza e illegalità sono moralmente accettate da buona parte della popolazione, sono considerate mezzi di sopravvivenza e canali per l’acquisizione di un ruolo sociale, di impossibile o difficile ottenimento per altre vie, e sono normalmente impunite” (1997: 138-148). Fragilità e disgregazione del tessuto sociale, cultura della sfiducia, accettazione dell’illegalità e della violenza, esiguità dell’economia legale, estraneità e complicità delle istituzioni, facilitano il perpetuarsi del fenomeno mafioso quale linguaggio espressivo del potere di un territorio.

 

Gli strumenti pedagogici di contrasto alle mafie italiane: la legalità costituzionale della Scuola di Barbiana

L’idea di legalità costituzionale discussa a Barbiana da don Lorenzo Milani restituisce un approccio teoretico e prassico in grado di farsi compiutamente strumento di affermazione dei diritti sociali intesi quali nucleo di contrasto alla cultura mafiosa e alla società mafiogena.

In un passaggio chiave della sua Lettera ai giudici don Milani chiarisce la sua idea di legalità all’interno del suo progetto di scuola e della sua idea di pedagogia. La scuola non è un’aula di tribunale insegna Barbiana: è piuttosto il luogo in cui la parola futuro acquista progressivamente senso storico e progettualità educativa. A scuola si gioca la partita della vita, sostiene il Priore, perché non si tratta soltanto di insegnare ai giovani il valore etico delle leggi (che devono essere interiorizzate per poter essere osservate nei comportamenti) ma soprattutto la possibilità che le stesse possano trovare occasioni di radicale revisione nel futuro (senso politico della cittadinanza). Compito della scuola per Barbiana è costruire una comunità di ‘cittadini sovrani’ in grado di esercitare un ruolo attivo all’interno della società: la scoperta pedagogica del protagonismo sociale passa attraverso l’impegno etico per sostenere leggi sempre più vicine ai bisogni della comunità nella quale si vive. La scuola non può essere una fabbrica di replicanti che lavora con lo specchio della duplicazione (direbbe Gianni Rodari), legittimando un apprendimento mnemonico e ripetitivo a danno di quello critico e attivo. I replicanti per Barbiana non saranno mai in grado di costruire nuove leggi o sarebbe più opportuno dire ‘leggi buone’ perché vengono educati alla subalternità e alla sudditanza. Ripetere non vuol dire conoscere ma essenzialmente adeguarsi al sistema, accettando lo status quo e rifiutando la possibilità che la società cambi. Per don Milani si devono rispettare le leggi giuste: quelle che costituiscono la ‘forza del debole’, per dirla con le sue parole. Significa pensare alla legge come linguaggio dell’uguaglianza (articolo 3 della Costituzione repubblicana) e pratica della dignità sociale. Barbiana si presenta come Scuola della Costituzione e del dissenso verso ogni forma di legalità neutra, cioè incapace di tutelare i deboli e gli ultimi. Don Milani si assume la responsabilità, sotto processo, di difendere il diritto alla disobbedienza civile verso le leggi ingiuste: quelle che si manifestano come il potere dei forti, destinati a diventare prepotenti sul piano delle dinamiche sociali. Alle leggi ingiuste, anche se formalmente ineccepibili, Barbiana oppone la resistenza della disobbedienza civile e la necessità di una loro trasformazione per via democratica secondo gli strumenti che la Costituzione prevede: il voto e lo sciopero. Don Milani, quindi, delinea una chiara idea di legalità strettamente ancorata ai principi costituzionali dell’uguaglianza e della dignità sociale. La pedagogia, in questa cornice argomentativa, si presenta come sapere critico deputato alla scoperta delle parole (quelle che esercitano consapevolezza sociale e cittadinanza attiva) e alla loro attuazione nei comportamenti: la pedagogia è dunque testimonianza, cioè coerenza radicale tra l’elaborazione critica di parole concettualmente vive e la loro esistenza prassica. Testimoniare vuole dire dimostrare la forza dell’educazione e la sua capacità di ricostruire i nessi sociali, e di indirizzare quindi le dinamiche comunitarie. Barbiana diventa in tal modo un grande esercizio di scuola democratica organicamente connessa all’idea di giustizia sociale, categoria che consente a parole come libertà, uguaglianza, dignità, di avere un ‘senso storico’ in grado di produrre concretamente una pedagogia di massa nell’ambito della tutela dei diritti e della pratica dei doveri di cittadinanza responsabile.

La più efficace risposta pedagogica alla società mafiogena è tutta nel principio di uguaglianza dei cittadini: la loro dignità sociale, ossia il complesso delle condizioni che rendono la vita di un uomo degna di essere vissuta. I diritti costituzionali sono l’orizzonte di una pedagogia della cittadinanza che si scopre esercizio responsabile ed effettivo di giustizia sociale. Mentre la società mafiogena annienta i diritti e costruisce relazioni improntate alla totale dipendenza e sudditanza, la legalità costituzionale prescrive invece una società libera, giusta, solidale in cui tutti, a partire dai deboli, possano trovare una collocazione dignitosa. L’antimafia in questa visione si afferma come nucleo di resistenza per la costruzione di una democrazia sociale in grado di promuovere una società dei diritti sociali e dei doveri di cittadinanza.

 

Una pedagogia dell’antimafia per una società dell’Ultimità

Educare all’antimafia traduce, in definitiva, l’urgenza di recuperare un’etica dell’umanizzazione, declinabile attraverso il paradigma dell’Ultimità di Paulo Freire, per rendere storicamente possibile una ‘pedagogia della prossimità e del dono’ quale vettore di una nuova civilizzazione rispetto alla dimensione mercantile delle odierne relazioni umane, ridotte dagli algoritmi del capitalismo informatico all’alienante condizione del consumo. Civilizzare, soprattutto secondo il modello educativo di Freire, impegna a lavorare sul piano pedagogico ad una nuova ri-territorializzazione: abitare cioè in modo consapevolmente critico e attivo, attraverso una partecipazione dal basso che promuova strategie laboratoriali di didattica sociale, i territori del nuovo millennio, sia quelli urbani sia quelli propriamente digitali. Una critica che però non può esercitarsi dentro il sistema della globalizzazione capitalistica (per limitarne soltanto gli aspetti maggiormente predatori) ma contro di essa, assumendo l’abito di una pedagogia politica impegnata a rendere praticabile un diverso modello di società, che muova dal mettere in discussione le attuali politiche mondiali di produzione e distribuzione della ricchezza. L’accettazione passiva delle povertà e delle disuguaglianze (ombrello ideologico della società mafiogena) legittima, da una prospettiva pedagogica, la persistenza antinomica del ‘trauma della rottura’ nelle relazioni umane: gli Ultimi sono lo scarto di una società che si fonda sulla disumanizzazione come paradigma antropologico-identitario della razza umana e quindi come vocazione ontologica della storia umana a produrre inesorabilmente disuguaglianze (all’infinito) nella dimensione politico-sociale.

L’educazione all’antimafia, in conclusione, può costituirsi come parte integrante di quell’idea delle pedagogie radicali degli anni Sessanta del Novecento che riteneva irrinunciabile l’orizzonte ermeneutico della ricostruzione educativa delle relazioni di prossimità umana attraverso la rimozione delle disuguaglianze. Proprio l’alfabeto dell’Ultimità, con la sua epistemologia del dono, è l’ambito teorico-prassico di definizione di una narrazione della speranza, che riprenda tutta la forza trasformatrice della profezia pedagogica dell’emancipazione per realizzare sul piano storico un modello di inclusione alternativo al paradigma dell’odio, della mercificazione e dello sfruttamento sociale. A partire dalla Calabria e dai Sud del mondo.

 

Bibliografia

 

Freire P., Pedagogia degli oppressi, Torino, Ega 2002

Milani L., L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani, Firenze, Lef 2004

Sales I., Storia dell’Italia mafiosa, Soveria Mannelli, Rubbettino 2015

Santino U., Politiche di sicurezza e di riduzione del danno in territori a signoria mafiosa, in Campedelli M., Pepino L., Droga: Le alternative possibili, Torino, Ega 1997

Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Lef 2007

Pedagogia dell'Antimafia

Lotta all'identità mafiosa - Stringhe, rivista di divulgazione scientifica dell'Università della Calabria

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